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La gara.

L’appuntamento è in via della Fata Morgana per le nove. Occorre individuare il Barcaiolo già, come detto, precedentemente sorteggiato. Io sto con Giovanni, lo cerco ma non è ancora arrivato. Provo a telefonargli, ma sbaglio numero e chiamo un trafelato direttore di gara che sta organizzando il trasferimento a Capo Peloro dei concorrenti sulla costa messinese,  da dove prenderà il via la traversata. Mi dice che anche lui, Giovanni, ha cercato i numero 99, cioè me. Nell’attesa dell’incontro mi faccio apporre i numeri di gara sulle spalle e sulla schiena col pennarello, come da regolamento. Spalmo la vasellina sotto le ascelle e su altri luoghi del corpo interessati all’arrossamento con l’acqua di mare. Preparo una borsa leggera con asciugamano, ciabatte, una bustina di carboidrati. Finalmente incontro il mio barcaiolo. E’ un bel giovane di trentatré anni, bruno di media altezza. Che nella vita è graduato di finanza. Mi saluta cordialmente e mi presenta il suo gioiello: la sua barca da pesca entrobordo, un gozzo nuovo di zecca cui non è stato dato ancora il nome. Gli propongo il nome di sua madre o della sua fidanzata, che ben presto gli appare accanto. Una graziosa ragazza altrettanta bruna, dall’aspetto riservato, ma che si rivelerà, successivamente, molto in gamba ed estroversa. Lavora presso una grossa società con contratto a tempo indeterminato come commercialista a Reggio, si chiama Debora. Giovanni mi chiede se in barca viene anche mia moglie o c’ho qualche accompagnatore:

-No, mia moglie preferisce aspettarmi al traguardo.

-Bene, ti dispiace se porto la mia fidanzata in barca?- Mi chiede.

 La mia risposta non può che essere positiva.

Tutto è pronto, in una ventina di minuti siamo in Sicilia. Al centro dello Stretto la barca subisce un beccheggio notevole, segno che vi sono molti contrasti di correnti di difficile identificazione nella direzione in cui ci dirigiamo. Io cerco di “leggere” il mare che dovrò percorrere tra poco. Per ora non ne sono particolarmente preoccupato. Debora sta al fianco di Giovanni a poppa e siede in maniera composta tanto da sembrare un po’ timorosa. Tocchiamo la sponda siciliana. A questo punto Giovanni mi ripete una sua preoccupazione:

-Sarà difficile trovarti dopo la partenza. Ci sarà caos.

Gli dico di non preoccuparsi. Nuoterò verso l’esterno e poi:

-La tua barca è inconfondibile, è la più bella!

 Sorride. Sono sicuro che ci incontreremo appena si diraderà la calca iniziale.

Siamo a Capo Peloro, alla punta nord della Sicilia dove in mezzo a sparuti e attoniti gruppi di villeggianti sotto un immenso traliccio sta prendendo vita la 48° Traversata dello Stretto di Messina. Lo spettacolo è entusiasmante. Più di cento barche e yacht si dispongono davanti al pur nutrito gruppo dei concorrenti. Siamo in orario, anche in anticipo, ma non si può iniziare. Occorre rispettare i tempi della Corrente Discendente prevista per le ore 11 per non rischiare di averla contro; occorre poi attendere l’OK della Capitaneria di porto che deve bloccare il traffico delle navi per circa un’ora.

Il percorso prevede, dopo la traversata vera e propria di circa 3200 metri, una virata a 90° alla prima boa di Cannitello, frazione di Villa San Giovanni, situata a cinque metri dalla costa, bisognerà allora gridare ai giudici il proprio numero; poi proseguire lungo costa per altri mille metri stando fuori delle boe rosse che segnano il limite di sicurezza per i bagnanti; il tutto per un totale di 5200 metri.

Siamo ormai prossimi al via. I giudici di gara fanno la spunta e controllano i costumi di gara: si possono indossare i costumoni ma non possono essere in poliuterano come in precedenti edizioni ammessi; né avere cerniere o gancetti, ribadiscono.

Ultimate queste operazioni si attende il fischio roco della trombetta. Lo spettacolo è grandioso. Barche, barchette, barconi, yacht; concorrenti accalcati, pubblico sparso sulla riva.

Sono anch’io concentrato e pronto a guadagnare il lato sinistro del mare in prossimità dell’ala di imbarcazioni tra cui ci sarà anche quella contrassegnata col numero 99. Il tempo sembra sospeso e c’è spazio per le mie fantasie. Immagino quello che avrebbe dipinto il Guardi, con la sua pennellata fedele grazie alla camera ottica, densa e nervosa. Avrebbe senz’altro realizzato uno scenario grande con ampia prospettiva e popolato di uomini e mezzi nautici in atto di muoversi. Non già un ritratto pittorialista e ben più fedele alla realtà fotografica ma più asettico del suo grande contemporaneo Antonio Canal. E forse dal cielo si sarebbe fatto avanti Giacomo Balla rappresentando i protagonisti,  nuotatori,  barche,  mare, uno dentro l’altro in un reciproco compenetrante movimento, ossessivo e bianco-rosso-verde.

Ma il tempo è scaduto. Il mare ribolle: di bracciate, di eliche, di respirazioni, di battute di gambe, di voci lontane, di voci interiori. E’ così, la gara della Traversata dello Stretto. Forse gli unici a tacere, nel profondo di quell’abisso sono proprio gli aventi diritto, i pesci; pesci piccoli, pesci grandi; e le navi costrette per un po’ a ritardare la loro partenza. Ma oggi siamo noi i protagonisti: i figli di Ulisse, che come per vendicarlo delle sue peripezie, percorriamo quello stesso tratto di mare con l’aiuto delle sole braccia, sfidando Scilla e Cariddi, mostricciattoli che ora potrebbero fare da protagonisti solo in un film di Hollywood o in un cartone animato.

Cerco di produrre un buon ritmo di bracciate per togliermi il prima possibile dalla calca. Con sorpresa riesco a mantenermi nel grosso del gruppo per lungo tempo. Non sono per nulla preoccupato di non trovare la mia barca, seguo quelle degli altri come mi ero ripromesso. Il mare è fortemente increspato in preda a correnti contrastanti; sembrano a volte contrarie, altre laterali o di tre quarti, ma mai favorevole. Stiamo nuotando verso nord, la boa di Cannitello è lontana e non si può certo vedere, occorre affidarsi alla propria magnetite. Mah, sapete? i nuotatori di fondo -è una mia teoria- sono un po’ come gli uccelli che si orientano avendo i punti cardinali nel cervello grazie a questo dispositivo naturale che permette loro di trovare sempre il nord; ma forse è una leggenda inventata da me.

Finalmente dopo non molti minuti Giovanni si sbraccia, non c’è dubbio è la barca 99 ben visibile: mi ha trovato. Sono a posto, basterà seguirla almeno fino a Cannitello dove la Traversata vera e propria virtualmente si concluderà; dopo ci sarà ancora un costa costa di poco più di 1000 metri, in favore di corrente.

Il mare si increspa sempre di più soprattutto al centro dello Stretto. Giovanni si sbraccia continuamente e mi invita a stargli vicino. Io mi metto di fianco cercando di neutralizzare la risacca. Per ora comunque non ci sono problemi particolari se non quelli presenti in ogni gara di questo tipo. Sto smentendo il proverbio: non c’è due senza tre. Ma è così. E le famigerate meduse? Non esistono, ci sono state fino a tre-quattro giorni prima, ora il mare ne è completamente sgombro. Non ci sarà il tre!

Al centro, dicevo, il mare è piuttosto turbolento. La barca oscilla di prua clamorosamente; Debora è silenziosa e sempre più compostamente seduta. Io accorcio la bracciata e ne aumento il numero per stare di più sull’onda per evitare di bere ed eccessive oscillazioni della testa che potrebbero produrre il mio cronico mal di mare. Il tempo passa, lo spazio si abbrevia; provo a tirar fuori il capo e vedo ormai la costa vicina:

-Dai che ce la fai! anzi ce l’hai fatta! Tra poco sarà tutto più facile. Sembra proprio così.

Ad un certo punto Giovanni mi indica la boa di virata di Cannitello; sulla destra svetta il campanile del Santuario della Madonna delle Grazie a Pezzo. Era un punto di riferimento che bisognava prendere. Viro correttamente lasciando la boa alla mia destra e gridando il mio numero ai giudici di boa, inconfondibili nella loro divisa bianca. Mi accerto che mi annotino il numero e poi mi butto a capofitto verso l’arrivo. Sto nuotando a non più di cinque sei metri dalla costa sulla linea di sicurezza dei bagnanti e Giovanni, che nel frattempo mi ha di nuovo raggiunto essendosi attestato in precedenza a distanza consentita, dalla costa, mi invita a venire un po’ più fuori. Gli ubbidisco a malincuore, essendo quella striscia di mare assai calma, anche se temevo ci potessero essere proprio per questo delle meduse.

Sto volando, sono velocissimo, riprendo qualche concorrente, innesto la quinta, riesco a respirare non solo ogni tre bracciate come è normale per me, ma addirittura ogni cinque; riuscendo a sfruttare maggiormente, tenendo aria più a lungo nei polmoni, il fattore galleggiamento. Sento di avercela fatta, nessuno, niente mi potrà fermare! Ma ne siamo sicuri? Ma non sei tu che dici sempre: “Le gare non si vincono mai prima, nè durante, ma dopo che si è schiaffeggiato lo striscione di arrivo ed è stato emesso il verdetto finale del giudice”? Sì sono io. Resto di questo parere e me ne dovrò ricordare sempre anche in seguito. In pratica che era successo? Era successo che a cinquanta metri dal traguardo, nel punto dove si doveva virare tenendo la boa rossa a sinistra ed entrare nel porticciolo dove era posto il traguardo, chissà perché, forse per stare dietro ad un gruppetto di nuotatori che stavo attaccando alla grande, mi sono allargato di tre-quattro metri e risucchiato da un diabolico Garofalo di discrete dimensioni presente nei paraggi. Il risultato è che tutti abbiamo ricevuto un vero e proprio schiaffo dal mare che ci ha fatto superare esternamente la linea del traguardo al di là degli scogli per almeno una ventina di metri. A quel punto accortomi dell’errore provo a far macchina indietro ma resto immobilizzato dalla corrente che cammina ad una velocità nettamente superiore a me. Che fare? Eccolo il numero tre! E poi dite che i proverbi non sono veri! Per fortuna mi viene in soccorso dalla riva uno degli organizzatori che urla e si sbraccia all’inverosimile indicandoci chiaramente di venire vicino agli scogli. Così faccio. Lì la corrente sembra parzialmente annullarsi. Riesco a tornare indietro nuotando lungo la scogliera fino all’imbocco del porticciolo e quindi girare con successo. Davanti trovo chiaramente lo striscione. Mordo l’acqua con la bracciata, sono arrabbiato, supero qualcuno e picchio forte con la mano sinistra (che è quella che uso all’arrivo per scaramanzia). Questa volta è fatta davvero! Occorre, d’accordo, aspettare il responso dei giudici e la classifica, ma sono sicuro di aver fatto le cose regolari e di essermelo meritato questo “Stretto” come in effetti risulterà successivamente dalla classifica ufficiale.

All’arrivo ancora un po’ ansimanti mi stanno ad aspettare i miei amici Dario e Michele, mi fanno i complimenti; mi dicono che sono andato bene; non so se mi stanno affettuosamente prendendo in giro o sono andato bene davvero. Dico semplicemente che il merito è tutto del mio barcaiolo che mi ha saputo guidare alla grande e devo andare subito a ringraziarlo. Mi sento bene, molto bene, fisicamente; non sono stanco per nulla. Le vomitate del viaggio precedente sono solo un ricordo. Mi meraviglio di me. Del resto sto studiando da Anunnachi, che per chi non lo sapesse sono quelli che all’origine dei tempi discesero dal  cielo sulla terra provenienti dal pianeta Nibiru e vivevano migliaia di anni [vedi le opere di Zecharia Sitchin, n.d.a.]

Esco Dall’acqua circondato dall’affetto dei miei due compagni di squadra e del grande Graig che trovo più avanti. Devo ora cercare Rossella e rassicurarla che sono arrivato e poi devo trovare Giovanni per ringraziarlo della sua guida “virgiliana”. La prima che incontro è mia moglie che sta amabilmente conversando con una signora, credo a sua volta moglie di qualche altro concorrente. Esordisco dicendo:

-Se non hai ancora intenzione di “divorziare” per le attese che ti procuro, ti comunico che io sono arrivato; ora vado a cercare Giovanni perché voglio ringraziarlo, invitarlo a pranzo.

Mi allontano salutando il piccolo crocchio che si era naturalmente formato. Faccio una cinquantina di metri e vengo praticamente fermato e salutato da una bella ragazza bruna con vistosi occhiali da sole scuri.

-Ciao Massimo, come stai?

 Vedendo che non la riconoscevo (come è noto io non sono fisionomista, eredità, questa volta, materna), mi fa:

-Ma come non mi riconosci? sono Debora!

- Oh,  Santiddio! con gli occhiali da sole non ti avevo riconosciuto!

 Era  la fidanzata di Giovanni, che grezza! Ma mi riprendo subito, segno anche che sono lucido, dopo tutto. --Sai Debora? è proprio te che cercavo, volevo invitarvi a pranzo per ringraziarvi di tutto, Giovanni dov’è?

-Sta più avanti ad ormeggiare la barca.

 La sua risposta si era mostrata indecisa e sarebbe stato meglio avere rivolto l’invito prima a lui. Avrei dovuto giocare d’anticipo. La saluto e saluto rispettosamente anche le persone con cui si intratteneva e che naturalmente non potevo conoscere. Procedo più avanti e finalmente dopo qualche centinaio di metri vedo Giovanni che ha appena attraccato il suo gozzo all’ormeggio del porticciolo; anzi lo sta cominciando ad issare con l’aiuto di un argano e di un carrello adatto ad entrare in acqua ed imbracare la barca piuttosto pesante. Lo aiuta un signore anziano, piccolo di statura, asciutto nel fisico, che sembra assai soddisfatto di quell’aiuto che gli si sta fornendo. Scendo quindi dal lungomare ancora gremito di gente in attesa degli ultimi concorrenti, mi faccio strada tra la sabbia e i sassi e raggiungo Giovanni. Gli dico a bruciapelo:

-Tutto a posto, ti volevo ringraziare della tua guida e assistenza. Di rimando mi presenta quel signore che poi era suo padre, vecchio pescatore e muratore rifinito, esperto in rifacimenti di facciate, come si affretta a dire una terza persona, un loro amico, che era intervenuto ad aiutare la messa in sicurezza della barca. Della maestria del padre di Giovanni, ne era testimonianza proprio la facciata della sua palazzina antistante il mare, di cui effettivamente si poteva cogliere un fine gusto nelle rifiniture color beige. Gli rinnovo l’invito che avevo fatto a Debora poco prima e finisce con l’accettarlo dopo qualche timida titubanza.

-Ci vediamo al ristorante del Boccaccio, allora…facciamo per le tredici.

 Siamo d’accordo.

Per la strada che ci separa dall’albergo, incontriamo il supermercato cui già avevamo fatto visita in precedenza per acquistare cibarie per il giorno dopo, quello previsto per il rientro: qualche affettato, della mozzarella, del pane, da bere, ecc. Nel pagare la cassiera mi riconosce e mi fa:

-Allora come è andata, ha vinto?

-Certo che ho vinto, te l’avevo detto!- rispondo deciso.

 La ragazza mi sembra incredula, ma è sorridente,  contenta per me; e come per riprendersi da una gaffe che non esisteva, mi risponde di getto:

-Gielo avevo detto che le avrei portato fortuna!

-Ne ero sicuro! dico garbatamente.

Paghiamo e ci salutiamo come vecchi conoscenti promettendo che un giorno saremmo ritornati.

Dopo aver a mia volta raggiunto l’albergo che dista poche centinaia di metri, mi faccio una rapida doccia, mi riposo un po’ e quindi insieme a Rossella scendo di nuovo in strada e raggiungiamo il vicinissimo ristorante. Saliamo, annunciamo al proprietario che abbiamo ospiti, che subito dopo ci raggiungono puntuali. Il pranzo è naturalmente a base di pesce dello Stretto: beati loro che riescono ad apprezzarlo; io me ne sto col mio solito piatto di pasta al sugo di pomodoro (ottimo),bistecchina ben cotta, pomodoro spaccato con mozzarella accompagnato da insalatina di stagione. Il vino non lo vuole nessuno, ma ne facciamo portare un po’ per non fare torto alla casa. L’olio sì, quello lo chiedo io che ne sono un appassionato; e me ne portano una bottiglietta locale di ottima qualità.

Il pranzo procede serenamente e come succede a tavola, si ha occasione di stringere amicizia e conoscersi un po’ di più. Giovanni ci parla della sua passione per il mare e per lo Stretto e di provare grande nostalgia quando sta fuori in servizio per il Mediterraneo. Debora, che si mostra una ragazza sobria quanto si vuole ma emancipata, invece riferisce degli imbrogli fiscali che a volte ci sono nelle grandi aziende. Certo non mi dà l’impressione di immaginarla in finestra, quando sarà vecchia, a celarsi dietro la vista dei passanti vestita di nero e con un fazzoletto in testa.

Finito il desinare, ci scambiamo i numeri di telefono e ci diamo appuntamento per futuri nuovi incontri qui a Villa San Giovanni o a Roma qualora decidessero di venire un giorno. Come ultima cortesia Giovanni si offre per farci visitare Reggio, ma ringraziamo e decidiamo altrimenti, anche perché nella serata ci sarà la festa di premiazione alla piazzetta, con tanto di complesso ed ospiti. Ci salutiamo affettuosamente e risaliamo in albergo. Ancora una doccia (il caldo è soffocante), ci cambiamo maglietta e ci indirizziamo a cercare una farmacia per prendere del travelgum, contro il mal di treno: è bene cominciare a pensare al viaggio di ritorno dell’indomani, non so se sopporterei un’altra vomitata gigante come quella del sabato prima.

La passeggiata è comunque piacevole e ci dà modo di vedere questa cittadina, un tempo borgo di pescatori e agricoltori, ricostruita ex novo dopo il disastroso terremoto-maremoto, del 1908. Sarà bene ricordare al lettore gli eventi che sconvolsero la città di Messina e i comuni dello Stretto, tra cui Villa San Giovanni, a causa di un evento sismico considerato il più grave verificatosi nel nostro Paese. Alle ore 5,21 del 28 dicembre del 1908, Messina, Reggio, e tutti i paesi o borghi dello Stretto, furono sconvolti da un fenomeno valutabile intorno al 10° grado della Scala Mercalli (8 Richter). Messina ebbe 80.000 morti, Reggio 15.000; il 90 per cento degli edifici furono distrutti e così tutti quelli pubblici, con tutto quello che potete immaginare per ciò che riguarda la situazione dei feriti, soccorsi (mille marinai soccorritori morti), ecc. Villa San G

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